Gustavo Mattiuzzi  (1944 – 2016)

Esistenzialismo

 

     Spesso sono esposto ad una vera e propria tentazione: quella di considerarmi, in quanto esistente, una mera apparizione. Di contro alla oggettività della specie, me­tafisica e biologica, l’esistenza, assunta nella sua individualità, nell’apparente centralità dell’io, acquista ai miei occhi l’evanescente figura di una impalpabile apparizione. Spesso mi chiedo: che importanza ha il mio io misteriosamente lega­to ad un corpo che è mio e di nessun altro, quando innumerevoli altri io, similarmente legati ai loro corpi individuati, furono e saranno? – Che ne è di tutti quelli che mi hanno preceduto e che ne sarà di quanti mi seguiranno? – Se di loro è rimasto o rimarrà memoria, ciò sfugge del tutto all’individualità in quanto tale. Forse che la Divina Commedia, per citare un’opera grandissima fra moltissime, si identifica con la mera individualità empirica di un uomo, chiamato anagraficamente Dante Alighieri. E se per altro pensiamo ad una sorta di individualità trascendentale in­carnata e resa immortale in seno al divino Poema, quale relazione sussiste tra questa individualità e quella realmente esistita dell’uomo- Dante? – Nessuna. L’opera vive di una sua vita propria,  una sua anima, una sua legge di autoconservazione. L’uomo Dante è ormai un cumulo di cenere dissolto tra gli elementi chimici della Natura. Resta soltanto un nome, ma che valore può avere questo nome se non di una etichetta incollata nel frontespizio dell’opera sua, pur anche del più bello fron­tespizio si possa immaginare? – Soltanto quando l’uomo Dante era vivo, con una sua, vigile autocoscienza, soltanto allora, dico, egli poteva rivendicare il diritto di  proprietà ed essere persuaso che l’opera era parte determinante di se stesso, carne della sua carne. Morendo,l’opera sua ha continuato a vivere di una vita propria come se il suo creatore non c’entrasse più nulla, non fosse neppure mai esistito. Ho citato questo esempio perché mi sia più chiara la convinzione che l’indivi­dualità, per se stessa, altro non è che urna mera apparizione. Ci crediamo “reali” solo perché riferiamo ogni nostro atto, pensiero etc. al nostro corpo, sul quale del resto si fonda la stessa autocoscienza empirica. E’ questo nostro corpo, per altro, destinato a dissolversi con la morte, il centro della nostra individualità. L’io per se stesso è un nulla se non è incarnato in un corpo che si sa appartenergli: un vuoto nome, un’astrazione. D’altra parte che cos’è questo nostro corpo, per cui ci vantiamo fino ali”inverosimile? – un semplice organismo che, per quanto ben strutturato, finirà prima o poi in un cumulo di cenere. Perché, allora, preoccuparci se  riteniamo noi stessi come una effimera apparizione nello spazio-tempo universale? – Occorre spogliarci dell’istinto di possesso che ci fa credere che il corpo sia nostra proprietà, soltanto perché sappiamo che è il nostro corpo, e continuare a vivere come non vivessimo, oppure essendo certi che vivere o non vivere ci è del tutto indifferente. Ogni presunzione ‘realistica è un sogno sovrapposto ad un al­tro sogno, pertanto una persuasione fallace e ridicola. Non possiamo negare che il preconcetto realistico ha una formidabile presa su di noi, per il solo fatto che si fonda sul complesso delle sensazioni del nostro corpo, impressione immediata che ci appare come certezza. Ma la certezza non è verità, né questa, può rinchiudersi nel tempio segreto della coscienza. DissoIta la coscienza, è dissolta la verità che immaginavo come mia verità. Né mi compiace il fatto che la Verità sia un in sé e per sé: la sua sopravvivenza empirica non esclude che con la perdita definitiva della mia coscienza, è persa anche la stessa possibilità di pensare la verità…. 

    Pur ammettendo che quando penso, penso nella verità, tutto ciò che ho pensato e scritto, mi si sottrae, in quanto figlio destinato a sopravvivermi e quindi a staccarsi da me. Non resta che credere al mio esistere come ad una apparizione tempo­raneamente consapevole. L’esistere è una fatica, hanno affermato in molti, e non certo incautamente: e non tanto per tutti i dolori che sopravvengono di giorno in giorno, quanto perché non ci è dato esistere senza essere persuasi che è una apparizione. Se è vero che nessuno è in grado di riempire di senso e significato il proprio esistere, a rischio di cadere in una banale allucinazione teorica, non re­sta che concludere che, in ultima analisi, l’esistenza non ha alcun senso e che i significati che le attribuiamo altro non siano che sogni ad occhi aperti…….

    Affermare che l’esistenza è un evento reale, soltanto perché si adottano certi criteri di immediata verificazione (ma chi può verificare l’esistenza?) significa assumere il carattere di realtà impropriamente, come se fosse data l’equivalenza tra realtà e verità.

     L ‘esistenza come apparizione può essere considerata come una affermazione di nes­sun valore teorico, e tanto meno validamente empirico. Le sensazioni, le percezioni, il movimento, i pensieri etc. starebbero a dimostrarci che l’esistere è realissimo che l’uso del termine apparizione è ammesso solo con una condizione particolare, ossia che non v’è nulla a questo mondo che, per il fatto di essere, non appaia…. Ora questo significato è da scartare. Non intendo l’esistenza come apparizione in questo senso condizionato. Per me l’apparizione dell’esistere è interamente negativa, ossia, un esistere che è privo di essere, nel senso di un fondamento significante e che proprio per questo si risolve nel mero apparire; per cui non vale l’esistenza in quanto apparizione più di quanto possa valere un’ombra o un fantasma. Se tu ti chiedi quale senso abbia il tuo esistere, poni una domanda in modo sbagliato. Non essendoci alcuna risposta, anche il tuo domandare non ha senso. E difatti questa domanda ha generato all’infinito un groviglio di pseudo-questioni, un vano gioco di un intelletto iincappato nella cattiva metafisica, e niente altro. Non resta che esistere accettando questo dato di fatto al quale siamo destinati per il solo fatto che siamo nati, vedendoci vivere, in tutta la molteplicità dei nostri atti, parole, pensie­ri etc. Ora che significa tutto questo? – niente altro che saperci come apparizioni temporanee, limitate dalla nascita e dalla morte e inclini a riprodursi fino a quando la specie si conserverà su questo pianeta, e ritenendo la stessa generazione che legge reale per mezzo della quale le apparizioni si riproducono. Se a volte ci consideriamo reali, o perché questa convinzione ci deriva dal fatto che il nostro simile ci considera per tale, possiamo accettare questa superstizione, al solo scopo pratico, senza darle alcun valore definitivo. In una parola, dobbiamo considerare la nostra apparizione cosciente né più né meno che un prolungato sogno, e la forza dell’autocoscienza come una differenza di livello…..

    Ammetto che è difficile vivere come se il suo modo di apparire fosse una estensione dell’apparizione onirica: non comprenderei, allora, in quale modo si può sostenere che quando agisco nello stato di veglia sono differente da quando sogno.

     Qualcuno potrebbe sospettare che queste conclusioni somigliano a quelle cui per­vengono i mistici. E a dire il vero il sano misticismo che altro ci prospetta, se non che l’esistere altro non sia che un vano apparire, che lo stesso corpo, su cui spesso si fonda il concetto di realtà, altro non è che un ente insignificante?
Ogni mistico giunge alla consapevolezza che tutto ciò che vede, sente, pensa etc. è un nulla, che l’io deve essere sradicato, che il corpo stesso merita la più assoluta indifferenza. Lo svuotamento mistico distrugge alla radice la superstizione della realtà. Non c’è nulla di reale per il mistico. Se guardiamo al misticismo non antropomorfico delle religioni orientali (specie il buddismo), I’esistenza è veramente un’ombra e l’immensità del cosmo, un nulla. Diversamente, nel misticismo cattolico, lo svuotamento è propedeutico per la contemplazione di Dio, il solo Og­getto reale, al confronto del quale ogni cosa è un’ombra…….

     Da questo punto di vista, la nascita risulta come il punto temporale dal quale prende inizio l’apparizione dell’esistenza, la morte il punto finale in cui l’apparizione si dissolve. Se non fosse per il numero dei pregiudizi che ci incatenano quanto all’io e al corpo, la morte stessa non ci susciterebbe paura o angoscia. Già educati dal sonno, che è immagine della morte, noi considereremmo quest’ulti­ma come un sonno senza risveglio, un quieto non-esserci-più. Una volta sradicato l’istinto di conservazione (principio di individuazione) noi sapremmo che noi non apparteniamo a noi stessi, che, come ogni altra apparizione, non abbiamo alcun centro cui riferirci, in una parola che è come non fossimo……..    

     Soltanto per l’uso pratico che dobbiamo fare di noi stessi, ci è utile la super­stizione che la nostra esistenza sia reale, quindi che abbia un senso o un significato; quanto alla consapevolezza essenziale, considerarci un niente è un formidabile acquisto di saggezza. Compiamo ogni giorno tutto ciò che è indispensabile per noi stessi e per la società, tentiamo di credervi, fino al punto, tuttavia, in cui questa consapevolezza non ci illuda circa la realtà di quello che facciamo.

    Pensiamo nella verità o la verità? – Che cosa significa pensare, quanto all’esistere?

Gustavo Mattiuzzi   22 Febbraio  1984

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