Gustavo Mattiuzzi  (1944 – 2016)

Filosofia

Attualità di Seneca: – la fama di cui questo pensatore latino godette in tutti i secoli successivi, dimostra inequivocabilmente che la sua lezione filosofica ed esi­stenziale non ha cessato di condizionare la weltanschung etica degli uomini di cultura occidentale.  E oggi, si registra la medesima incidenza? – La risposta, a mio pa­rere, è insieme affermativa e negativa.  Comincerei con il “negativa”:   oggi è forse poco accoglibile il modello di saggezza da Seneca proposto, in quanto modello perfetto dì individualismo, cui è tuttavia estraneo l’elemento sociale dell’eticità.  Per quanto suggestivo, il modello senechiano del sapiente ha una lontananza che ce lo rende impossibile.  Inoltre quell’alone aristocratico che lo avvolge, che va di pari passo con il disprezzo del volgo, preclude questa immagine da un più largo processo di universalità concreta del mondo etico.  Il sentirsi tranquillo, non esposto all’influenza della contraddizione, autosufficiente in se stesso, imperturbabile di­fronte ai numerosi mali della vita, fa di questo “dio incarnato” un ente costruito nell’intimo laboratorio del privato.  Nonostante questo modello costituisca una me­ta da raggiungere instancabilmente, piuttosto che una meta già definitivamente raggiunta, esso ci fa avvertire pienamente la nostra impotenza ed eteronomia.  L’eroismo che lo caratterizza è appetibile, ma impossibile.  In un mondo come il nostro, così povero di eroismo etico, tale immagine del sapiente senechiano suona quasi come un riso sardonico contro la corruzione inguaribile della natura umana.        Essere richiamati a tali altezze non fa più per noi.  Inoltre la lezione cristiana ci ha fatto comprendere che la sapienza privata deve essere trascesa qualitativamente dall’amore verso il prossimo, il quale si fonda anche sulla consapevolezza dell’imperfe­zione propria ed altrui.  Ora vengo a dire qualcosa sulla risposta affermativa. . . . .  

      C’è in questa dottrina un bisogno incoercibile di perfezione, di elevazione, di spiritualizzazione.  Seneca percepisce che la follia umana è responsabile di non so quanti mali, e, pur credendo preilluministicamente, che la ragione sia di per se stessa sufficiente per estirpare questa condotta folle e malvagia, si batte ugualmente a che tutta la natura umana sia migliorata.  Non è possibile sottrarsi alla sincerità e lucidità del consiglio etico di questo filosofo, tanto esso è conforme ad una speranza umanistica, né possiamo dargli torto ogni qualvolta egli denuncia il disordine quale non pensato rapporto giusto tra mezzi e fini.  Anche se non vogliamo diventare sapienti come lui desidera, non possiamo, leggendo le sue pagine immortali, sentire il fascino di questa perfezione intimamente legata allo sforzo individua­le.  Ci accorgiamo che questa strada è tracciata da un pensatore che ha sperimen­tato, con una riflessione insistente, continuata, le contraddizioni di cui intende liberarsi, e proporre queste sue esperienze riflesse come meta necessaria da rag­giungere, sì da considerare l’esistenza più che un mero ciclo della natura, un vero ed interminabile processo etico.  In secondo luogo, direi non soltanto attuali, ma indispensabili ancor oggi, le sue insostituibili analisi sulla instabilità, della esistenza, vista in tutti i suoi aspetti nevralgici, che fanno di lui uno dei po­chissimi filosofi che abbiano saputo, senza tante e complicate elucubrazioni, mettere a nudo le strutture profonde dell’esistere, da cui il fascino perenne che ne deriva.  La sua esigenza di trovare un metodo con il quale stabilire, ossia dare un fondamento etico, all’esistenza, ovverosia una serie di consigli terapeutici per guarire dal male del vivere, nasce esattamente da questa acuta persuasa consapevolezza che non c’è niente di sicuro, stabile e buono nell’esistenza, e che, quindi, se l’uomo vuole salvarsi ( termine questo tutto immerso nel potere della ragione, non di una qualche rivelazione superiore) deve adottare quel metodo.  Inoltre, la po­sitività della sua lezione consiste ancora nella forte tensione educativa che è sottesa al suo insegnamento etico.  Quando moltissimi autori contemporanei hanno trattato l’etica con il bisturi chirurgico, dilettandosi di trovare la verità mo­rale, più che sentendo il bisogno di insegnarla, Seneca si pone, contro costoro, con la piena autorità del Maestro di vita morale, per il quale non tanto conta trovare il fondamento dell’etica, quanto consentire agli altri di divenire più morali di quanto non lo sono.  Non è questo un aspetto secondario della sua attua­lità.  Come ogni cosa è destinata per natura ad invecchiare, anche il pensiero senechiano mostra gli anni…. , ma come ogni cosa veramente grande è destinata a sopravvivere, anche il pensiero del Nostro sopravvive, anzi parla ancora con tale autorità e persuasione, all’animo nostro, che ci meravigliamo come, dopo tantissimi secoli da cui è apparso, gli uomini, tenendo conto della sua lezione, non siano diventati un po’migliori.

Seneca.  libertà e suicidio:  riguardo a questo capitale tema, Seneca continua la tra­dizione di pensiero dello stoicismo classico-greco. Le stesse numerose citazioni da quei pensatori, lo testimonia, ampiamente, e vogliamo, poi, prendere come punto di riferimento la sua stessa biografia, il suo suicidio imposto da Nerone, scopria­mo una straordinaria coerenza tra quanto affermato in sede teorica e la decisione presa. Pur tuttavia Seneca non argomenta mai intero no al suicidio, come se si dilettasse ad arricchire queste sue disquisizioni con sottigliezze teoriche intorno al rapporto tra libertà e volontà di sopprimersi. Noi intuiamo come tutta la sua dottrina sul suicidio altro non sia che la naturale conseguenza di determinate pre­messe. Una volta posto la libertà razionale come postulato etico dell’esistenza, il suicidio appare soltanto come una decisione all’interno di questo universo di valori.  Semmai può sorgere una obiezione circa la contraddizione che esisterebbe tra la persuasione che tutto deve avvenire in conformità con la natura e la deci­sione di interferire nel corso regolare della natura stessa con un atto straordi­nario. Ma questa contraddizione è soltanto apparente, nel senso che il suicidio non è per Seneca un atto contro natura, ma una sospensione del corso naturale. Occorre saper distinguere due aspetti nel concetto senechiano di natura:  l’uno che riguarda la natura come stupefacente macchina di cui noi siamo parte, l’altra la natura umana che ha il suo centro nella libertà. Ed è per quest’ultimo aspetto, il solo che implichi una valutazione etica, che Seneca giustifica il suicidio. E’ un dato di fatto che anche se l’uomo non decide di suicidarsi, la natura ne determina egual­mente la fine fisica. Il suicidio allora altro non è che un anticipare quanto la natura inesorabilmente farà. Seneca non possedeva, ancora l’idea che l’esistenza è un dono divino e che pertanto il suicidio avrebbe rappresentato una offesa alla bontà divina. Il concetto senechiano di Dio e della provvidenza è indisgiungibile da una immagine impersonale della divinità, piuttosto esso è intimamente legato al­l’immagine della divinità intesa come ordine cosmico retto da un Logos universalmente presente (come si evince dal dialogo sulla provvidenza) – Il suicidio, per­tanto, coinvolgerebbe, per Seneca, soltanto la, libertà dell’uomo e il rapporto esi­stente tra l’uomo e l’universo naturale. Quanto a quest’ultimo punto, non sorge al­cuna problematica degna, circa il primo, invece, la decisione assume un valore eti­co. Quale la portata di questo valore? – La risposta è contenuta nel modo in cui Seneca intende tutta l’esistenza umana. Essa è più un male che un bene, quindi il suicidio costituisce un atto con il quale l’uomo chiude volontariamente questo ciclo negativo, in virtù di una decisione che scaturisce dalle profondità stesse della libertà. Di che cosa può ritenersi responsabile il suicida? – di aver concluso prima della natura un ciclo, ove sono più i mali a tormentare l’uomo che non i be­ni apparenti? – Inoltre è nella costituzione essenziale del sapiente di autoregolarsi circa la possibilità di continuare a vivere o meno. E’ il sapiente che possie­de un livello tale di consapevolezza e di libertà, che ha in sé il diritto di de­cidere circa la sua esistenza. Non essendo più disturbato da vane immagini della vita ultraterrena (fantasticherie dei poeti, rimprovera Seneca) e sapendo che, dopo la morte, l’anima del giusto spazierà in regioni altissime, pienamente libera e fe­lice, il sapiente ritiene la morte come una compiuta liberazione, e il suicidio con un atto che fa gustare anzi tempo questa condizione. Seneca considera il corpo ptatonicamente come una prigione, quindi il venir meno di questo, è ai suoi occhi un vero e proprio vantaggio. Soltanto i non-sapienti, i quali attribuiscono il vero bene al corpo, hanno la cupiditas  di conservarlo. Seneca parla della possibilità del suicidio come di “porta sempre aperta”:  ossia, qualora l’esistenza diventi intolle­rabile, l’uomo sa in qual modo decidere. Qualcuno potrebbe trovare una contraddizione in Seneca tra l’importanza che il filosofo attribuisce alla prova che assicura l’autenticità della virtù, e la decisione di sfuggire ad ulteriori prove, presenti e temute, col suicidio. Anche questa è una contraddizione apparente, poiché Seneca non si fa apologeta del suicidio, ma ne stabilisce tutta la legittimità etica. E’ vero piuttosto che, di contro ad una concezione che vedeva nel suicidio un at­ta di impotenza o eticamente negativo, Seneca difende una concezione che eleva questa decisione a supremo atto morale. Proprio perché, con la regione, l’uomo diviene ordinatore di se stesso in quanto ente naturale, (e la ragione, per Seneca è un principio divino) egli è in un qualche modo superiore alla natura, quindi ha in sé il potere (diritto) di uscire da quell’ordine, qualora egli lo voglia….

SENECA E  LA LIBERTÀ : uno dei capisaldi dell’etica stoica è senz’altro la libertà, intesa non come una spontanea manifestazione dell’io, quanto piuttosto co­me autodisciplina secondo il dettame della ragione e in piena conformità della natura. Spaccerebbe per uno pseudoconcetto colui che s’illudesse di assumere la libertà stoica per una specie di forza illimitata di potere. Al contrario, non credo esista una dottrina morale, come quella stoica, che abbia fatto proprio il concetto di limite. La sua grandissima invenzione sta nell’aver compreso che la natura stessa è il limite della libertà dell’individuo, e che la ragione, su cui in ultima analisi si fonda la libertà stessa, è lo svelamento di questo limite naturale. La giustificazione, ad esempio, che della autentica dottrina di Epicuro fa Seneca medesimo, sta a dimostrare come una malintesa interpretazione attribuiva al principio epicureo del piacere una assolutezza arbitraria, non conforme all’insegnamento vero del Maestro, il quale ammetteva che la naturalità del pia­cere fosse confermata dalla misura impostagli dalla ragione. In fondo è sempre la ragione, sia nello stoicismo che nell’epicureismo, a funzionare come principio regolativo della natura dell’uomo. Che poi nello stoicismo, la ragione fosse as­sunta come criterio ultimo della discriminazione etica dell’azione, ciò derivava soprattutto dal fatto che per esso la ragione costituisce l’essenza della natura umana. Uscire dall’ordinamento regolativo della ragione, significava, per lo stoi­cismo, uscire dall’umanità stessa, ed essere costretti ad accogliere altri prin­cipi regolativi per se stessi insufficienti. Ora il culto esclusivo che della libertà ebbe tutto lo stoicismo, altro non è che un corollario del culto per la ragione, non essendo possibile pensare l’un termine senza l’altro. La libertà è la quintessenza della natura, nel suo aspetto, più elevato, quale appare nella na­tura umana, è la natura resasi perfettamente trasparente a se stessa, tramite la piena autocoscienza umana. Perché la libertà sia tale, bisogna che abbia in sé il fondamento naturale (nulla di più estraneo in Seneca che la libertà sia una for­za artificialmente prodotta) che la porta ad essere nello stesso tempo principio ordinatore della natura medesima. L’immagine del sapiente senechiano, della sua autosufficienza conquistata attraverso le prove più ardue, sarebbe vuota se non la riempisse questo concetto di libertà dinamicamente morale, diventerete una sorta di clìschè astratto o prototipo fantamorale. (da qui l’avvertenza di Sene­ca di perseguire questo fine, il quale non è affatto irreale, nonostante esso sia molto raro).

     Questa immagine possibile è il risultato di una severissima autodi­sciplina della volontà, tramite il dominio naturale della ragione. Per questo es­so è realizzato difficilmente, perché sono pochissimi che intendono la loro natura come realtà futura, mentre cadono nell’errore di concepire la saggezza o co­me un qualcosa di precostituito o di inutile. Ora, perché la libertà si trasfor­mi in forza morale, è necessario, per Seneca, che l’individuo abbia chiaramente in se stesso l’importanza della contraddizione, ossia egli deve sapere che la virtù si può conseguire soltanto mediante la prova e che, di conseguenza, il processo di moralizzazione dell’esistenza può attuarsi soltanto attraverso una quotidia­na conquista. Seneca ha troppa esperienza par limitarsi a suggerire qualche consiglio morale, senza preavvertire che questi consigli a nulla valgono, se essi non vengono stabilità come fini da raggiungere, non già come patrimonio precostituito. Tutta la sua fenomenologia dell’azione umana, implica questa rappresenta­zione conflittuale dell’esistenza, che coinvolge la libertà nelle sue decisioni, per cui la libertà stessa è sì la condizione a priori della vita morale, ma è soprattutto processo di liberalizzazione dell’esistenza. Forse si è troppo insi­stito nel ribadire che la concezione etica dello stoicismo è eccessivamente razionalistica: Seneca crede nella ragione, ma non ne fa l’organo assoluto della vita morale. La ragione è la misura della libertà, e quest’ultima è la condizione trascendentale della ragione. C’è in lui, senza dubbio, una rappresentazione pes­simistica della natura dell’uomo, ma non tale da rifiutare il potere della ragione. Egli è convinto che senza il controllo della ragione la libertà stessa ri­sulta una mera forza animale. Ma l’importanza attribuita alla ragione scaturisce da un presupposto preciso: la natura razionale dell’animale uomo. Di fronte all’immoralità di molti, frutto il più delle volte della follia e irrazionalità, lo stoico Seneca non poteva che sottolineare l’importanza della ragione. (esempio di Caligola) ……

Seneca e lo stoicismo: i capisaldi del pensiero senechiano sono stoici. Il culto della libertà (individualismo, libertà, necessità naturale, ragione, virtù razionale etc.) unito ad una piena consapevolezza della superiorità della natura, del suo limite inteso come necessità e destino, fanno parte della grande eredità stocica.  Seneca traccia le linee essenziali di una immagine dell’uomo, la cui anima con­siste nel saper accettare la contraddizione esistenziale, mediante l’esercizio razionale e volontario della virtù. Quest’ultima rappresenta il centro dinamico della forza morale, la quale è nello stesso tempo la garante del valore di ogni azione e pensiero, nonché il completamento del significato naturale del comportamento umano. Il suo stoicismo è differente da quello originario, greco; più orientato verso la prassi, apparentemente non curante della giustificazione dei fondamenti, una vera e propria arte del saper vivere. Lo spirito di concretezza della cultura romana non ammetteva deviazioni di tipo metafisico, per cui la cura per il massimo problema della condotta umana, si trasformava in una preoccupazione per il più conveniente stile di vita. Non che manchino i fondamenti nel pensiero morale senechiano, ma questi sono letteralmente assunti dalla tradizione stoica, quale esisteva nel suo adattamento romano. Non a caso tutta la filosofia senechiana consiste in una attentissima analisi delle strutture fondamentali dell’esistere, dalle quali si possa trarre direttamente un giudizio di valore etico…..  Non è tanto la dottrina epicurea che si diffuse in Roma, quanto quella stoica, nelle sue molteplici direzioni scolastiche, e questo perché l’ethos romano, così tenace nel valorizzare il comportamento individuale in rapporto alla struttura giuridica pubblica, aveva’bisogno di un complesso di principi che insegnassero la autodisciplina interiore e la correttezza del vivere esterno. A questo scopo lo stoicismo si prestava come l’unica dottrina predisposta ad una estrinsecazione evidente. Seneca, la cui biografia è già un esempio inequivocabile, decise di assimilare la teoria stoica, affinché con essa fosse in grado di autogestirsi eticamente e di poter insegnare ad altri quei principi e quelle regole (idee regolative, commenterebbe Kant) ritenute indispensabili per poter mettere ordine razionele ad una realtà sociale già viziata dall’anarchia, dal disordine, dalla sregolatezza. Fu quindi anche una necessità storico-sociale che spinse Seneca ad appro­fondire la lezione dello stoicismo e a saperla adattare concretamente ai tempi suoi. In quanto ex precettore di Nerone, Seneca aveva messo a fuoco, come meglio non avrebbe potuto, l’abuso privato di un potere pubblico, le cui radici – si suppone – consistevano, per Lui, nel fatto che l’individuo privato (e Nerone lo era nel senso più terribile del termine) aveva disatteso completamente l’interesse pub­blico, e nulla aveva fatto per modificare in meglio se stesso. Seneca odiava la crudeltà mista a pazzia (da qui la sua decisa disapprovazione di un Caligola, paz­zo e crudele insieme, aberrazione della individualità e del pubblico potere) in quanto forma dell’irrazionale e della stupidità. La sua piena consapevolezza stoica gli faceva intravvedere l’importanza dell’individuo, ama sempre in rapporto alla necessità generale. Sbaglierebbe colui che giudicasse lo stoicismo senechiano come una specie di regressiva fuga verso il privato, quasi fosse una reazione di scontento e di paura; Seneca mette a fuoco l’individuo, proprio perché sa mol­to bene che dalla qualità dell’individuo scaturisce la qualità dell’insieme. Lo stoicismo senechiano, rispetto a quello greco, ha il vantaggio di presentarsi come dottrina sapienziale, o arte del vivere, utile all’individuo socialmente considerato, proprio in conformità alle esigenze della società romana di quel tempo. Seneca è convinto che a nulla valgono le dottrine fini a se stesse: né il suo scetticismo sociologico lo porta a rinchiudersi nell’ambito di una visione pri­vata del vivere. Egli sa che una trasformazione etica dell’individuo comporta una trasformazione etica della, collettività. E anche se, nel dialogo “vita solitaria” propone come modello per il sapiente una esistenza ritirata, non lo fa perché è persuaso che l’etica sia un affare esclusivamente privato, quanto piuttosto per avvertire quanti si tuffano nel sociale, che l’azione a nulla serve se non è arricchita dalla teoresi, dalla contemplazione essenziale di ciò che sta alla base dell’azione stessa. E per l’appunto lo stoicismo gli si presentava come la dottrina più vera, nel senso che, puntando al perfezionamento dell’individuo, gettava le basi  per un differente modo di comportamento. Ed è questo, e non altro, lo scopo cui attende tutta la riflessione senechiana. Un uomo nuovo vale sempre di più che una società invecchiata nel vizio ….

Gustavo Mattiuzzi  26 Dicembre 1983

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