Gustavo Mattiuzzi  (1944 – 2016)

Religiosità

La religione senza immortalità è destinata a crollare: il postulato principale di ogni religione è l’ immortalità. Non è tanto la credenza dell’esistenza di dio quanto invece l’assicurazione che per ogni uomo, dopo questa avventura terrena, spetta un tipo di esperienza diversa da quella sensibile, una condizione inimma­ginabile, ma vera. Se fossimo sicuri che una vita dopo questa  morte non ha alcun senso di essere, difficilmente saremmo religiosi. L’essenza religiosa è rintracciabile sia a livello psicologico che antropologico nel bisogno di ogni individuo umano di sopra-vivere. Se l’uomo per destino naturale dovesse vivere interminabilmente, difficilmente si porrebbe in una situazione religiosa. Gli è che egli è consapevole di essere un ente limitato, dalla nascita, e dalla morte, per cui non sa rassegnarsi ad accettare il proprio limite, come limite naturale. Per questo, forse ha sentito il bisogno di proiettare in un mondo puramente immaginario tutto ciò che non trova completamento nella vita terrena. L’uomo è troppo legato alla conservazione del proprio corpo e della propria identità psicologica per potersi rassegnare alla loro perdita. E in verità, ogni uomo vive come se questa vita fosse la sola possibile, rifiutando di immaginare un’altra vita, oppure, mancandogli una certa sicurezza, rifugiandosi in una immagine troppo sovrumana, eppure compensatoria. La ristretta coscienza che lega immancabilmente l’uomo al proprio io corporeizzato, spiega sufficientemente l’angusta ottica con cui tale problema viene sentito ed analizzato. E’ pur sempre il corpo individuato che detta legge, nonché un io che fa tutt’uno con il suo  corpo. Il postulato dell’ immortalità è strettamente derivante dalla concentrazione individualizzata della situazione: non si tratta d salvare la massa, il gruppo, il popolo (tutta retorica) bensì il singolo, il cui de­stino biologico viene disinnescato da un altro destino, quello spirituale.  E’ sem­pre l’esigenza, antropocentrica ed individualizzata che porta l’uomo a ipotizzare una  condizione contraria a quella stabilita dalla natura. E la religione, in quanto metodo di studio dei bisogni elementarissimi del composto umano, ha saputo egregiamente sfruttare questo disagio individuale, sottilizzando sugli strati sotterranei di questo sistema di bisogni, ricavandone altresì tutta la forza di persuasione occulta. Siccome difficilmente l’uomo si rassegna ad accettare la pro­pria morte come annullamento totale, la religione ha individuato la regione franca per potersi muovere ed inspirare una speranza oggettivamente credibile, sulla quale predisporre un preciso orientamento dì vita. La religione è la prima formi­dabile rappresentazione della completezza esistenziale attraverso determinate immagini,  dogmi,  raffigurazioni, aspettative etc. Nello scarto venutosi a creare nell’uomo stesso tra il suo sistema di bisogni, speranze, illusioni e la certezza che con la morte il suo corpo è destinato a dissolversi, la religione si è incuneata ed insediata nella coscienza come soluzione finale, come risposta definitiva……

        L’uomo non può rassegnarsi all’ipotesi che l’unica immortalità a lui possibile sia data dalla trasmissione generativa: questa forma di immortalità lascia, pur sempre in disparte la questione della individualità personale. Soltanto allegori­camente l’uomo può affermare che il figlio è la continuazione di se stesso, una continuità genetica differenziata. Questa certezza, che pur è fondata su delle basi abbastanza ferree,  non soddisfa il singolo.  ( rivoluzionaria scoperta, di Kierkegaard). Il figlio rimane sempre una  alterità irripetibile, unica. Una simile fi­ducia non esce da una raffigurazione metaforica. Per quanto i tratti somatici, psichici, intellettuali possano indurre a stabilire delle affinità fondate sulle leggi genetiche, non è possibile stabilire una equivalenza, né il criterio della differenziazione è tale da ricorrere all’ipotesi di una identità prolungata…..

      La religione tende a fissare una linea di demarcazione individuale, parlando della esistenza di un’anima  individuale, di una quiddità invisibile, posta fuori dalla esperienza, irripetibile. La sua richiesta è indubbiamente degna di ogni attenzione, se è vero che ogni uomo non è ne sarà mai disposto ad accettare una tesi secondo cui il figlio è una proiezione geneticamente confermata, del padre o della madre. La religione coglie immediatamente la singolarità dell’uomo come desti no il cui senso si rischiara in un ordine di significato diverso, e, proprio per aver insistito sulla immortalità, essa si pone a fianco del singolo. I.’ immortalità, pertanto, è una rivendicazione, di contro alla soluzione biologica, della impossibilità, per il singolo, di essere distrutto totalmente.

      Speranza ed immortalità: è sempre presente nell’uomo la tentazione di vedere la propria morte (nell’ ambito della, possibilità-necessità) come un atto in cui la propria individualità è annullata. Stabilendo una identificazione tra la propria coscienza e l’ inevitabilità della fine, l’uomo estende il significato di quest’ultima parola a tutto il suo esserci. Gli sfugge inevitabilmente che oltre il suo corpo e la sua identità empirica, ci possa essere qualcos’ altro. Ogni ipotesi che rinvia ad un ordine non verificabile, è esposta ad una negazione radicale. Per questo l’uomo vive come se l’unica sua preoccupazione consistesse nel salvaguardare l’identità corporea e psichico-mentale. Fondandosi sulla mera intuizione immediata della autopercezione sensibile, l’uomo si riconosce soltanto come corpo individuato da un io. Ora questa individuazione è analoga a tantissime altre indi­viduazioni, per cui l’uomo non ritiene sia necessario appellarsi ad una ipotesi troppo strana, come sarebbe quella riferentesi ad una condizione non naturale. L’idea dì immortalità gli suona pertanto come un assurdo, una mera invenzione escogitata da chissà chi, per poter esorcizzare reazioni, sentimenti che pur sempre appartengono all’ordine naturale. Nel quadro generale dell’economia biologica dell’individuo., suona strano che si debba introdurre una costante non naturale: che male c’è, si sente dire, a congetturare che nascita e morte chiudano il cerchio biologico, senza l’intromissione di indesiderate variabili? – Non è sufficiente aspettarsi dalla  un’altra forma di vita, piuttosto che la forma per se stessa si trasformi in chissà quale condizione? – In base a questo criterio economico e di semplicità, l’uomo è portato ad escludere la sopravvivenza. L’esperienza stessa suggerisce che chi è morto non può più essere considerato come se continuasse a vivere. Si è mai visto qualche defunto risorgere o apparire? – Sono accettabili  i  resoconti delle sedute parapsicologiche? –  ovvero quanto è riportato da qualcuno circa sogni avuti? – Ma pur lasciando da parte queste incerte testimonianze, e fondandosi soltanto sul ragionamento, è possibile, ci si chiede, che una esistenza terrena possa continuare in un modo differente? – I controlli sono esclu­si, le prove sono fallaci, le conclusioni impossibile, e allora come continuare ancora a credere che ogni uomo, con la sua morte, continua a vivere? – Non suona tutto ciò come una radicale contraddizione? – Non è più semplice supporre che il fatto stesso di vivere col proprio corpo è la ragione prima ed ultima dell’economia generale del vivere? – Non sono, allora, da considerarsi mere proiezioni fantastiche quelle che si volgono ad una realtà di cui non sappiano nulla? – Forse che esiste un Dio che si cura singolarmente dell’esistenza di ognuno? – O non piuttosto è da credere che la Natura sia la sola fonte della vita e della morte, e che noi siamo natura partecipata che pensa? – Chi ha mai sperimentato l’esistenza di Dio? chi ne ha spiato il volto? sentito i suoi passi? – Non è forse il frutto della immagina­zione credere che non siamo soli, che non siamo soltanto un corpo, che non siamo destinati al totale annullamento? – Perché aggrapparci ad una religione, col ri­schio di restare per sempre infanti, ingenuamente colpevoli? …….

       La coscienza immediata ci rinchiude in questo piccolo ambito di argomentazione. L’ esperienza, anch’essa immediata, ci conferma in queste nostre supposizioni…….

       Lo stesso pensiero è tentato di seguire questo tracciato. Eppure, proprio per il fatto che riflettiamo sulla impossibilità di sopravvivere, ci è lasciata aperte la possibilità di esserlo. Nessuno discuterebbe di qualcosa se questo qualcosa non esistesse. Anche quando ragioniamo per assurdo, lo facciamo per avvicinarci sempre di più alla verità. Possiamo trincerarci dietro a questa affermazione: Dio non esiste, o se esiste è indifferente a noi; l’ipotesi della sopravvivenza è odiosa ed impossibile, siamo animali evoluti e rassegnamoci a credere nella nostra morte, dal momento che ci è noto la nostra nascita. Viva il sistema eco­nomico, per il quale il principio spiega la fine! – Eppure questa facile circola­rità non è tale da rassegnarci e darci la pace. Più ci pensiamo, e più sentiamo di essere inquieti. Ma perché? – non abbiamo già spiegato tutto? la fine si stringe con l’inizio!  non è sufficiente questo? – Abbiamo affermato sopra: Dio non esiste, esiste soltanto la natura e l’uomo in quanto parte di essa. L’uomo nasce e per il fatto di nascere è destinato naturalmente a morire, onde sia riservata la successione voluta dalla natura stessa e dalla specie. Che cosa troviamo che non va? – Troppo equilibrio, troppa armonia, troppa simmetria in questa certezza naturale!

      Ricordo il titolo di un pensatore troppo presto dimenticato, Michele Federico Sciacca. “L’uomo, questo squilibrato” – Agostinianamente questo filosofo spiritua­lista critico ha toccato il tasto perenne: l’inquietudine. Se è vero che tutta l’esistenza è squilibrata, donde questo squilibrio? E se l’esistenza è tale, lo squi­librio può essere spiegato soltanto per condizione naturale? – La concezione dell’esistenza come circolo chiuso delimitato dalla morte dal coito e dalla morte, non è tale da provocare uno squilibrio, se non perché l’esistenza non è una mera apparizione fenomenica, ma un reale conflitto tra i bisogni del corpo, le soddi­sfazioni deviate di questi bisogni, ed altri bisogni. Donde questa deviazione? – Non potrebbe l’uomo mantenersi in pace come il semplice animale? – E se è soltan­to un animale sviluppato, perché l’inquietudine? – Se l’uomo è il solo animale a porsi la domanda su se stesso, è la sua una domanda senza possibilità di risposta? L’animale non si pone la domanda, né cerca la risposta. Perché mai l’uomo se la pone e cerca la risposta? – E’ questo domandarsi un epifenomeno, o qualcosa di originario e radicale? – Il porsi la domanda è dettato dalla cultura, per cui l’uomo che ne è privo non è in grado di farsela, oppure l’uomo, in quanto tale, seppure in contesti differenziati di cultura, sente il bisogno di porsi la domanda?……

      Ora porre la domanda significa introdurre una rappresentazione religiosa: infat­ti la religione riguarda esattamente il porre la domanda e il dare la risposta. Ma questa, correlazione è tipica dell’uomo, e soltanto di lui. D’altra parte non ha alcun senso porre una domanda ed essere certi che la risposta non c’è. Colui che domanda attribuisce un senso al suo domandare, quindi giustamente si aspetta una risposta. E colui che non domanda, non può neppure attendere una. risposta. E ancora, il non porre la domanda non significa che colui che la pone sia un folle, uno che corre dietro ai non sensi. Porsi la domanda vuol dire, altresì,che c’è un bisogno che spinge a porla. Questo bisogno nasce non certo dalla coscienza immediata, empirica, ma da tutta una riflessione mediata. E più è esigente questa mediazione, più la domanda è posta in modo radicale. Ciò richiede ancora, che una risposta ci sia, altrimenti il porre domanda sarebbe un non senso, una finzione, una perdita sofisticata di tempo. Chiedersi se l’ippogrifo esista, è un non senso in quanto non si è mai veduto o toccato un ippogrifo.  E’ la stessa cosa riguardo alla domanda circa l’esistenza di Dio o della immortalità? – Non credo. Per quan­to neppure di dio e dell’anima siano soggetti di esperienza sensoriale, essi co­stituiscono il fondamento stesso per cui la domanda può sorgere ed essere formulata. Non conta il linguaggio che la riveste o le immagini: conta soltanto il fondamento, il quale è al di là del linguaggio, è un bisogno, il quale fa parte della natura dell’uomo, in quanto natural pensante. Se l’uomo non pensasse, sarebbe inconcepibile il porre la domanda. Ma per il fatto che l’uomo se l’è sempre posta, ciò sta ad indicare che la domanda nasce non dalla paura, né da altri sentimenti, bensì razionalmente dal bisogno di sapere quale è il senso e il signi­ficato del vivere. La morte è stata posta niente altro perché l’uomo ponesse la domanda e ricercasse la risposta. Sotto questo punto di vista, la morte è saluta­re: senza di essa la domanda radicale e metafisica non sarebbe mai stata posta. Ma oggi si sostiene questo: l’uomo non si chiede più se la sua vita ha un senso ed un significato. Egli vive come se la sua esistenza terrena fosse la sola a giustificarlo. E’ vero. Ma se grattiamo sotto la superficie di indifferenza, di orgoglio etc. ci accorgiamo che la condizione per la domanda si è ampliata enormemente, che l’uomo, più che nel passato, va alla ricerca del modo stesso di porre la domanda e di attendere la risposta. Quanti non si pongono la domanda radicale sono paragonabili a tanti oggetti trascinati alla deriva dalla corrente, e che soltanto in qualche intervallo, dopo tanto affaccendarsi, si chiedono:  che senso ha tutto ciò che faccio o penso o immagino o sento? – Non riesco a credere che ci sia un uomo che non pensi a questo. Neppure il criminale, la cui autocoscienza si è obnubilata e corrotta, sfugge a questa domanda. Che dico? neppure il più primitivo selvaggio, il quale, fondandosi su una particolare immaginazione e sistema etico introiettato, sentirà questo bisogno e lo esprimerà nel suo linguaggio immaginoso ……

 Gustavo Mattiuzzi   10 Febbraio  1984

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