Pittura come intima interpretazione del reale

 “… Realismo è, dunque, non la riproduzione meccanica e scientificamente obiettiva del vero, che non ha in sè alcuna espressione, ma la ricreazione fattane dall’artista in modo personale e soggettivo così che, di esso, nell’opera d’arte, non si trova soltanto la presenza materiale insignificante ed inespressiva, bensì anche l’essenza spirituale che anima la materia inerte e le infonde la vita di cui è priva…”

                                                Ernesto Mattiuzzi – 1953

Ernesto Mattiuzzi  (1900 – 1980)

La lunga vicenda pittorica di Ernesto Mattiuzzi (Venezia 1900 – Conegliano Veneto 1980) è la singolare storia di un artista rimasto fedele per tutta la vita all’idea del fare pittura come adesione interpretativa alla realtà, cioé al mondo sensibile delle cose che si offrono alla vista, alla percezione e alla conoscenza nella magia della doppia luce ambientale e interiore. La sua ricerca tecnica e formale, a lungo e pazientemente coltivata nel disegno classico, così come l’ingente quantità di interventi critici su giornali e riviste hanno espresso per oltre cinquant’anni questa concezione della pittura come manifestarsi del dialogo intimo tra pittore e realtà, come farsi immagine e sostanza cromatica dei modi e delle forme in cui l’artista sente la realtà che lo circonda, sia essa natura come paesaggio, o come umanità colta nei ritratti, nei gesti quotidiani del lavoro, nell’emozione dell’esperienza degli affetti più semplici e direttivi. La sua formazione era avvenuta in ambiente veneziano, in mezzo agli esempi costantemente citati di Ciardi, Fragiacomo, Selvatico, Brass, Milesi e di Ettore Tito, così che Mattiuzzi assorbì il clima pittorico e didattico dell’Accademia più restia a lasciare la tradizione pittorica otto­centesca, vedutistica, romantica e realista. Nella conservazione dei canoni accademici vedeva anzi la salvaguardia dell’Arte vera (“quella con l’A maiuscola” scrive Mattiuzzi) che non conosce tramonti. “Nella pittura come nella scultura vale in primo luogo il risultato conseguito con la realizzazione del contenuto nella forma, attraverso la fattura dell’opera, dipinto o scultura che sia. Qui sono i valori plastici che contano. Argomento, soggetto, descrizione, racconto, ecc., sono le denominazioni che si addicono alla descrizione dei vari aspetti e momenti della creazione artistico-letteraria e per questo si applicano all’arte figurativa solo a condizione che vengano espressi dalla forma grafica e, s’intende, plastica”. A queste idee, chiaramente assunte dalla cultura della seconda metà dell’Ottocento, quando in clima positivistico si affermarono in Italia le tendenze veriste, naturaliste e realiste, si ispirò sempre il Mattiuzzi difendendo in modo strenuo l’impegno di conoscenza e di moralità nel mondo del reale che proponevano. Ne riprese il sostanziale illustrativismo che, a seconda di maggiore o minore implicazione verista o simboli­ca, ora serviva a cogliere le parvenze della vita più caratteristiche, singolari, nelle quali fosse quasi possibile toccare la sostanza intima dell’uomo (contadini, maternità, profughi, religiosità, gli anziani dalle gote scavate dal tempo, gente al mercato, bambini colti in naturale quanto teatrale gestualità), ora a enfatizzare con evidenza rappresentativa notazioni psicologiche (soprattutto la lunga e sensibile serie di autoritratti, nudi e figure femminili in genere) o precisazioni di costume (i mestieri, l’ambiente familiare, in treno). E’ fuori di ogni dubbio che l’illustratività di Mattiuzzi possieda valori autentici di immagine pittorica al di là della pura e semplice rappresentazione e affondi nel terreno dell’interpretazione, del vissuto come partecipazione alla vita, come esplorazione di umanità, di atmosfere, di ambiente. In questo pacato realismo mancano tanto i temi del lavoro come pietra miliare del progresso trionfante (atteggiamento che condurrà il realismo simbolista a sfociare nel futurismo) quanto i modi e i temi della denuncia, della rivolta contro le sopraffazioni, gli sfruttamenti e le condizioni di miseria, così frequenti, entrambe le tipologie, nell’iconografia artistica italiana degli ultimi decenni dell’Ottocento e del primo decennio del Novecento. Restano, ogni tanto, nella pittura di Mattiuzzi degli anni Quaranta e Cinquanta, riferimenti alle problematiche sociali dell’emarginazione, della povertà, della sconfitta sociale, ma non c’è tensione, cioé l’opera non si traduce in momento di innesco politico, didascalico o moraleggiante: le figure sono, piuttosto, colte nella loro umanità, accettate come campioni di vita, restituite a una dignità particolare, tutta interiore. A parte qualche ritratto con evidenti richiami simbolici e allegorici (1929 e 1943) la poetica realistica di Mattiuzzi evitò qualsiasi sfrangiamento espressionista o enfatizzazione in chiave di lettura psicologica. Studiava con il disegno – quello puro, completo e già ricco di contenuto pittorico – persone e cose nella loro consistenza plastico-volumetrica e luministica, nella loro evidenza, coltivando la conoscenza del particolare come penetrazione percettiva, appropriazione, arricchimento di sensibilità e del personale rapporto con il reale. Specie nei disegni degli inizi degli anni Trenta si ha l’impressione che Mattiuzzi si mettesse in gara con le riproduzioni fotografiche, cercando di penetrare i segreti dell’immagine, riprendendone entro certi limiti gli effetti chiaroscurali e superandone l’appiattimento scavando negli occhi, nei segni somatici c nei gesti la vitalità, l’espressione. In qualche occasione, io credo, prese a modello immagini di libri e riviste, come stimolo allo studio e al superamento dei limiti della riproduzione fotografica della realtà, tematica per lui fondamentale data la pienezza della sua adesione alla figurazione verista e narrativa. “La pittura sta alla fotografia come l’arte sta alla scienza” è, a riprova di quanto vengo asserendo, il ti­tolo di uno dei suoi articoli: “… si dice – scrive – che… per la sua possibilità di dare la fedele riproduzione di ogni particolare visibile, la fotografia si deve ritenere superiore alla stessa pittura. Senonché si dimentica il fatto che anche quando la pittura è superlativamente verista ed il suo fine sembra quello di gareggiare con la natura medesima, il valore di rappresentazione insito nell’opera pittorica non è di fredda e rigida figurazione, ma è un valore “psicologicamente” documentario, sia rispetto all’artista che all’opera sua”. Evidentemente, il giudizio di Mattiuzzi sulla fotografia è assai limitativo, ma non bisogna dimenticare che il suo intento era la difesa ad oltranza del realismo pittorico, della pittura autentica come immagine concreta, sia pur mutata (o necessariamente mutata) rispetto alla sua consistenza oggettiva o per le condizioni di visibilità e la diversa rappresentazione che ne poteva essere data, o per la diversa sensibilità dell’artista. Sui rapporti tra fotografia e arte e fotografia e realtà tornò ancora in un altro articolo del 1957, quando si facevano sentire le prime avvisaglie della crisi dell’astrattismo informale e della gestualità liberata da ogni preoccupazione rappresentativa, che avevano profondamente segnato le esperienze estetiche degli anni Cinquanta: “Ora che l’astrattismo ed i suoi derivati all’avanguardia internazionale pare siano in ribasso o stiano per scomparire, si riparla di figurativismo e realismo… Ancora si fa una terribile confusione da parte di profani e di persone colte, per ignoranza gli uni e scarsa comprensione o malafede le altre, fra pittura e fotografia. Per costoro, qualunque dipinto realista, verista, è fotografico, perché ritrae la realtà e si trascura il fatto che questa può essere, anzi lo e senz’altro, interpretata dall’artista, ed interpretazione può significare… non solo attenuazione, ma pure accentuazione dei caratteri che la realtà presenta alla visione dell’artista, fino a superare, nella evidenza descrittiva dei particolari, la realtà stessa”. L’attacco al modernismo nelle arti si estende anche all’architettura con affermazioni che oggi suonano attualissime e in consonanza con le esigenze del postmoderno:”E se l’architettura moderna – scrive Mattiuzzi nel 1959 – fornisce l’esempio di una quasi totale astrazione dalla natura, ciò significa evidentemente che la tecnica soverchiante l’arte ha finito per sostituirsi completamente ad essa, eliminando così ad un tempo la natura e l’arte medesima”. L’ispirazione, l’armonia, l’equilibrio non possono venire per Mattiuzzi che dalla natura, dal grande testo del già creato che custodisce e offre gli stimoli alla fantasia dell’artista.

 

Sia nella pratica attenta dell’esercizio pittorico, quasi sempre preceduto da disegni di studio luministico e di preparazione ai fini della distribuzione sulla tela, così come nell’insegnamento e nell’enunciazione teorica attraverso i numerosi articoli, Mattiuzzi espresse lungo tutta la sua vita la certezza che la vera arte dovesse essere sempre intimamente connessa alla verità della natura, alla realtà del mondo sensibile. Per questo, lungo l’ampio arco della sua carriera artistica non è dato di cogliere sostanziosi mutamenti, devianze, sperimentazioni se non nell’ambito delle tecniche di elaborazione e di resa cromatica. A volte temi assai simili tornano a distanza di un ventennio e la resa narrativa conserva la stessa freschezza, la medesima semplicità d’impianto e l’intenzionalità tra verista e realista, la quale certo non aveva bisogno di supporti ideologici per manifestarsi, ma era il modo stesso di pensare e di sentire la realtà e la vita e di giustificare l’arte. Già tra le due guerre, questo suo atteggiamento riservato e di­staccato dalle più calde correnti di pensiero e di visione estetica (dai valori plastici come dal primo e dal secondo novecentismo con le loro istanze di recupero di arcaicità e austerità trecentesca o di armonica misura quattrocentesca) lo aveva portato a isolarsi, a seguire una propria linea di ricerca, confrontandosi di quando in quando in manifestazioni collettive e, soprattutto, cercando conferme all’appuntamento principale che era la Biennale di Venezia. Alla grande manifestazione internazionale partecipò nelle edizioni dal 1924 al 1936, pur senza prendere posizione netta nei confronti dell’imperversante poetica novecentista e di regime. Fu con grande amarezza e con ribellione che Mattiuzzi prese coscienza del nuovo e più grave isolamento in cui veniva gettato, con tanti degli artisti della sua generazione, dall’imporsi nell’immediato dopoguerra delle poetiche astrattiste e informali e dalla brusca virata della gestione della Biennale. Non partecipò più alla mostra e cominciò una lunga, a volte esacerbata polemica con la conduzione dell’ente espositivo veneziano, denunciando le scelte troppo spesso di parte, o dettate da immediata “convenienza” che ispiravano i commissari. I suoi articoli accompagnano tutte le edizioni della mostra dal 1946 al 1970, seguendone passo passo la crisi e lo sfaldarsi delle strutture minate da interna inadeguatezza e poi dal maglio della contestazione.

 …. La Biennale di domani non deve neppur lontanamente somigliare a quella di oggi. Deve essere un’altra, come rinata dal disfacimento della prima. Deve riacquistare la sua forza, il suo prestigio… Bisogna dunque finirla con la dittatura dei non artisti. La Biennale dei burocrati e dei tecnocrati ha già fatto il suo tempo e ne ha fatto fin troppo”.

         E.  Mattiuzzi, 1970

Già dalle prime edizioni del dopoguerra apparve chiaro che anche quello della Biennale di Venezia, come tanti altri enti, era entrato in crisi istituzionale (crisi che non pare per la verità neppur oggi risolta) e che era sempre più preclusa la partecipazione agli operatori non chiaramente “schierati”. Di fronte a questa situazione, l’atteggiamento di Ernesto Mattiuzzi fu la scelta difficile e davvero “costosa” della polemica irriducibile, su giornali e riviste, contro gli errori delle giurie, l’inadeguatezza delle strutture, la parzialità delle scelte. E’ frutto di questo “clima” la sua proposta di creare un Salone degli Artisti indipendenti italiani (“… non tutti: quella parte soltanto che dal perpetrarsi delle precarie condizioni in cui versa l’arte nel tempo che attraversiamo hanno tutto da perdere e perderanno davvero se di esse rimarranno passivi ed inerti spettatori. Gli altri – per lo più mancati o falsi e bugiardi – … continueranno a sperare che si protragga all’infinito”). La denuncia di Mattiuzzi si appuntava soprattutto contro le scelte dei critici che dirigevano l’Ente, ma anche contro l’affermarsi di un’artisticità che sfuggiva ormai al controllo dei canoni di valutazione tradizionali e certamente lontana da quelli accademici. “Ed è così che sovente capita – lamenta l’artista – di sentire che il tale è diventato artista frequentando la bottega d’un barbiere o facendo il barbiere lui stesso od il fornaio, il commesso…”. Instancabile, poi, è la dichiarazione dell’assurdità dell’arte astratta (“inutili esperienze, vane esercitazioni sempre continuate e mai concluse”!) fino a chiamare spazialisti e nuclearisti gli “assassini dell’ar­te” (1954) e a definire “buffonate” le proposte della pop art e “sce­menze” e “baggianate” le invenzioni dell’arte cinetica e programmata (1964). La resistenza alle suggestioni che l’artista decide di respingere e di combattere in nome della sua idea dell’arte come interpretazione della realtà è davvero singolare, e anche rara se si pensa che  il suo irrigidimento su posizioni conservatrici non si traduce in sprez­zante isolamento: da giornalista, da critico, da polemista e da insegnante non si sottrasse al dibattito contingente, agli attriti e alle non poche inimicizie che gli procurò. Da pittore, invece, sembrò sempre più appartarsi nel suo studio e immergersi nella campagna veneta, riconducendo ogni tensione esistenziale all’unità della propria opera, a quella serenità del fare pittura a contatto con la realtà naturale che gli veniva dall’aderenza ai principi primi che egli sentiva e viveva come immutabili al di là delle “perversioni”, delle incomprensioni, delle deviazioni contingenti. E c’è, naturalmente, un’adesione profondamente religiosa a valori (il lavoro, la casa, la famiglia, gli affetti, la terra) sentiti come guide sicure della vita e della ricerca della bellezza. Ostile agli sperimentalismi delle avanguardie e a tutte quelle manifestazioni che non trovavano la fonte di ispirazione nella natura sensibile, Mattiuzzi ci appare, oggi, come un solitario artista in certo modo epigono delle poetiche della fine dell’Ottocento e di un romanticismo semplice, popolare, tipico del periodo tra le due guerre, ma anche – pur nei limiti della sua visione estetica – appassionato difensore dell’arte come mestiere, come conoscenza tecnica dei mezzi (colori) e dei soggetti (attraverso lo studio del disegno), di un’arte come tramite di apprendimento, di godimento e di comprensione della realtà, della natura, della vita e dell’uomo. Valori che oggi ci paiono semplici, forse retorici data la rapidità di consumo delle esperienze visive, ma ai quali, stranamente, continuiamo a pensare con infinita nostalgia.

 GIORGIO SEGATO

 (Testo tratto dalla presentazione del catalogo monografico sull’opera dell’artista Ernesto Mattiuzzi, pubblicato dalla Edizioni Canova – Treviso, tenuta dal prof. Giorgio Segato in occasione della Mostra Antologica retrospettiva organizzata dagli Assessorati alla Cultura dei Comuni di Padova e Conegliano con il patrocinio della Regione Veneto – Maggio  1985).

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