Ernesto Mattiuzzi  (1900 – 1980)

Signore e signori buona sera e benvenuti all’inaugurazione di questa mostra di dipinti e disegni di Ernesto Mattiuzzi, che si tiene in occasione del centenario della nascita, a 20 anni di distanza dalla morte. Non è inutile ricordare questi riferimenti cronologici, perché ci servono non solo e non tanto per collocare storicamente l’artista, quanto piuttosto per chiarire la nostra posizione nei suoi confronti e per mettere in luce la nostra attuale possibilità di apprezzarlo. Oggi possiamo comprendere l’opera di Mattiuzzi e riconoscerle il valore che merita, perché la nostra sensibilità e il nostro pensiero si collocano in una prospettiva interpretativa che ha abbandonato il mito centrale delle avanguardie (divenuto poi luogo comune della critica) cioè il pregiudizio che il criterio fondamentale del valore dell’arte sia l’invenzione del nuovo, e che quindi la ricerca dell’inaudito, del singolare, del sorprendente sia la finalità primaria dell’attività dell’artista. Solo la conquista, o meglio la riconquista, della consapevolezza che il nuovo non è di per sé, in quanto nuovo, significativo, e che, anzi, la ricerca del nuovo a tutti i costi è la radice della stucchevole banalità e della malcelata inconsistenza in cui rischiano di precipitare molte manifestazioni dell’arte contemporanea, apre una prospettiva adeguata per accostarci senza condizionamenti e apriorismi alla tradizione realista in cui Mattiuzzi si colloca. Il realismo è stato oscurato dalla lettura dell’arte del Novecento, dominante fino ad anni recenti, che aveva occhi solo per vedere il frenetico susseguirsi delle avanguardie, accavallate l’una sull’altra e impegnate a consumare con grande velocità ogni programma e ogni invenzione. Eppure il realismo, pur penalizzato dalla cattiva fama procuratagli dai programmi ideologici del nazismo e dello stalinismo, ha continuato nelle sue molteplici declinazioni a vivere una storia importante, da Bonnard a Balthus, da Sciltian a Chrìstian Schad; da Edward Hopper a Lucian Freud, per non parlare di Picasso – che nel corso di tutta la sua vita ha accostato alle opere più iconoclaste e deformanti una produzione puramente classica di uguale importanza.  Possiamo dire che oggi è giunto, o meglio è ritornato, il tempo in cui è possibile considerare l’arte in termini che prescindono dal criterio del nuovo. Questo non significa pensare che l’arte esprima esclusivamente valori immutabili e metastorici, quanto piuttosto ritenere che ciò che appartiene al contingente e ciò che è universalmente valido si intrecciano indissolubilmente, che l’eterno si manifesta nel tempo e che il tempo rimanda necessariamente all’eterno. Non crediate che voglia riproporvi un’estetica neoidealistica. Mi basta attirare la vostra attenzione sulle riflessioni di Charles Baudelaire, riconosciuto a buon diritto come il primo grande teorico della modernità. Se apriamo il saggio “Le peintre de la vie moderne” del 1860 troviamo scritto: “La modernité, c’est le transitoire, le fugitif, le contingent, la moitié de l’art, dont l’autre moitié est l’eternel et l’immuable”. Proprio mentre rivendica il ruolo dell’effimero, dei transitorio, di ciò che è più soggetto alla moda, Baudelaire sottolinea la peculiare relazione tra storicità ed eternità. “Il s’agit de dégager de la mode ce quelle peut contenir de poétique dans l’historique, de tirer l’étemel du transitoire”. Sulla falsariga di queste indicazioni di metodo, vorrei individuare il valore e il rilievo dell’opera di Ernesto Mattiuzzi proprio collocandola in un periodo determinato, mettendola in relazione con l’ambiente in cui si è formata ed è venuta sviluppandosi. Non disponiamo, purtroppo, di una ricostruzione analitica documentaria della sua formazione, che ci possa informare sui contatti e sulle esperienze che l’hanno influenzata, ma possiamo contare su un riferimento sicuro. Nel 1924 Mattiuzzi espone per la prima volta alla Biennale di Venezia, a cui parteciperà fino al 1936. E’ opportuno soffermarsi su questa edizione della Biennale del 1924, frequentata e sicuramente studiata dal giovane artista, perché al suo interno si evidenziano il lessico espressivo e i criteri di stile ai quali egli rimarrà fedele per tutta la vita. Quella del ’24 è la Biennale della solidità e della plasticità della figura, in cui, abbandonati i furori del futurismo e gli enigmi della metafisica, la pittura italiana torna a parlare un linguaggio pacato, composto, immediatamente comprensibile. E’ la Biennale in cui viene allestita la mostra dei “Sei pittori del Novecento”, guidati da Margherita Sarfatti, il movimento di cui fanno parte tra gli altri Achille Funi, Emilio Malerba, Piero Marussig, Mario Sironi. E’ la Biennale in cui espongono Virgilio Guidi e Pompeo Borra, in cui vengono dedicate mostre personali a Felice Casorati e a Ubaldo Oppi (un artista a cui Mattiuzzi tributa ammirazione in un testo del 1950, che cita proprio il catalogo di quella Biennale). Sono questi i nomi a cui a mio avviso Mattiuzzi deve essere accostato, con l’aggiunta di quello di Cagnaccio di San Pietro (Natale Scarpa), pittore veneziano poco conosciuto, ma molto significativo, che segna il punto dì tangenza tra il realismo italiano e la Nuova Oggettività di importazione tedesca. Se vogliamo utilizzare un’espressione tanto generica quanto diffusa possiamo parlare di partecipazione al clima di “ritorno all’ordine”, che caratterizza l’arte italiana (ma anche europea) del primo dopoguerra, e con ritorno all’ordine in pittura intendiamo decoro e sobrietà, staticità e plasticità della figura, equilibrio cromatico e formale, chiarezza di composizione e prevalenza di temi legati alla quotidianità. Per Mattiuzzi il principio d’ordine per eccellenza è la natura, intesa come riferimento fondamentale dell’arte, misura del fare e criterio di valore estetico.

Le emozioni di un realista

Ernesto Mattiuzzi ha attraversato il secolo delle avanguardie e dall’astrazione restando sempre fedele ad un’idea di pittura basata sulla figura e sul senso della forma. Formatosi a Venezia nel primo dopoguerra, nel clima del ritorno all’ordine e del nascente movimento novecentista, nel corso della sua lunga carriera ha maturato un codice espressivo nutrito di vigore plastico e di finezza di disegno. Rigoroso e intransigente sostenitore e teorico del realismo, ha dialogato costantemente con le vicende della pittura figurativa non deformante del ventesimo secolo, dal Realismo Magico (Oppi, Casorati, Sacchi, Martens, Cagnaccio di San Pietro) alla Nuova Oggettività di origine tedesca, fino alle inquadrature della cinematografia neorealista.

Realismo per Mattiuzzi ha significato in primo luogo assumere l’asprezza e la crudezza del reale, contro ogni tendenza idealizzante, e questo l’ha portato a dedicare attenzione alle situazioni della vita offesa e sofferente, ma anche a rivolgersi alla ricerca, ispirata a modelli classici, della bellezza delle forme, in particolare femminili, con occasionali incursioni verso territori simbolisti, o verso narrazioni e illustrazioni aneddotiche.

Questa mostra si propone di mettere in evidenza nel corpus di opere che spaziano nei vari generi pittorici due tonalità emotive che avvolgono i soggetti della sua esperienza figurativa: da una parte il desiderio erotico, vitalistico, la passione sensuale, dall’altra l’inclinazione pessimistica e la meditazione sulla condizione umana, percepita come segnata dall’infelicità e dalla fatica dell’esistenza. Eros e malinconia, in fondo amore e morte, temi romantici per eccellenza, intensamente sentiti e rappresentati dall’artista. Sono motivi sviluppati in parallelo, che in alcune opere di particolare densità trovano una significativa confluenza, con la tensione erotica intrecciata al ripiegamento malinconico. Degne di nota le situazioni nelle quali è tematizzata la difficoltà di comunicazione tra l’uomo e la donna, che non riescono ad incontrarsi in un dialogo foriero di comprensione, ma restano chiusi nei rispettivi inconciliabili punti di vista.

 

Il primato della natura non comporta peraltro impersonalità e oggettivismo. Sia nelle sue opere pittoriche che nei saggi di teoria dell’arte pubblicati nel secondo dopoguerra – in cui riecheggiano temi kantiani – l’operare artistico è incontro di soggetto e oggetto, e quindi non esclude, ma anzi richiede, l’interpretazione, l’emozione, l’intervento della personalità dell’artista, al punto che i significati (attribuiti o riconosciuti dalla soggettività al reale) in alcune occasioni sembrano spingere questa pittura sul terreno del simbolismo. Su questa base il Mattiuzzi saggista marca la differenza fondamentale tra la pittura e la fotografia, alla cui tecnica attribuisce una riproduzione esclusivamente centrata sull’oggetto, scientifica e impersonale. E proprio su questa base condanna ogni deformazione della figura, e soprattutto intraprende una lunga ed aspra polemica contro l’astrattismo. E’ interessante considerare l’argomentazione, ancora una volta di sapore kantiano, con cui motiva il suo radicale dissenso da questo orientamento. Egli scrive nel 1952: “Follia o stolta presunzione è quella che induce la mente ad oltrepassare i limiti che le sono assegnati e la spinge nel vuoto precipitandola nell’assurdo. Solo una morbosa esaltazione può sconvolgere l’animo di coloro che ne sono pervasi fino a convincerli di potersi ergere al di sopra della natura e di creare un nuovo mondo fuori di quello che in essa è stato creato”. L’astrattismo è giudicato un tentativo illusorio di sollevarsi al di fuori della cerchia sensibile (dalla quale la conoscenza umana non può evadere) per creare un mondo fittizio. E’ perdita della misura, atto folle di presunzione, patologia della volontà che sfocia nell’assurdo e nell’insensato. L’unica possibile garanzia di senso e di ordine è l’ancoraggio alla natura e alla realtà. L’anarchia delle forme e dei principi che si esprime nell’astrattismo rispecchia lo spirito dei tempi e la “libertà licenziosa dei costume”  che li caratterizza, mentre il realismo si propone come reazione di rigore morale, cifra di disciplina e autocontrollo. A quella che considera la follia dilagante dell’astrattismo Mattiuzzi contrappone la ragionevole misura del realismo, fino ad arrivare ad elogiare, in suo nome, gli accademismi della pittura sovietica in un ammirato articolo sul padiglione russo, riaperto alla Biennale nel 1956. La logica che presiede questa riflessione è quella dell’esclusione e della contrapposizione. Il positivo (il realismo) si contrappone al negativo (l’astrazione). Non c’è nessuna attrazione da parte dell’opposto e nessun interesse per esso, quindi nessuna mediazione appare possibile. Rispetto ad un’alterità radicale non resta che definire gli ambiti e difendere i confini. E’ comunque essenziale rilevare che realismo per Mattiuzzi non equivale a neoclassicismo. Non si identifica con quello che egli definisce con finezza lo “speciale gusto artistico fatto di euritmia, di equilibrio e di serenità”, che egli non sente come proprio, come annota in un testo del 1953 a mio avviso estremamente prezioso, perché rivelatore di una notevole consapevolezza critica. Il realismo di Mattiuzzi si fa carico delle disarmonie, degli squilibri, delle inquietudini del reale. Porta in sé una pacata “cognizione del dolore”, che si affaccia sulla negatività dell’esistere, senza cancellarla e senza eluderla. A differenza di quanto rimprovera al neo-realismo, dal quale Mattiuzzi prende le distanze per il suo carattere letterario, cioè per la sua programmaticità, nelle sue opere è assente la denuncia e il riferimento politico. Nitidezza compositiva, chiarezza di lettura, morbidezza cromatica, assenza di asprezze e dissonanze, sono gli strumenti formali di una visione dell’esistenza in cui la serenità è conquistata tenendo sotto controllo il turbamento. Nella pensosità meditativa dei ritratti e degli autoritratti, nei volti segnati dei vecchi, nelle figure di poveri e derelitti, nell’acuta percezione delle dissonanze comunicative tra uomo e donna, rappresentata in alcune scene cariche di tensione, prevale la percezione di una malinconia pervasiva, che ritroviamo anche in alcuni paesaggi e nature morte. In altri paesaggi la felicità della visione sembra avere il sopravvento, ma solo nei nudi il pessimismo si scioglie interamente nell’ammirazione per le forme levigate del corpo femminile, e lascia il campo a una celebrazione vitalistica della bellezza. Alcune annotazioni, prima di concludere, sui disegni. Il disegno è uno strumento potente di conoscenza. Tenere la matita in mano è il modo più penetrante di vedere, il modo migliore di impossessarsi visivamente del mondo. L’aspirazione di Mattiuzzi a rapportarsi al reale nella sua oggettività non poteva prescindere dalla severa disciplina del disegno. La sua lontananza da un approccio di tipo impressionistico (che comporta la resa immediata, fenomenica e superficiale dell’apparire), la sua ricerca di una visione capace di confrontarsi con la consistenza plastica dei volumi, si manifestano nell’utilizzo sistematico del disegno preparatorio, che costituisce la prima stesura dell’immagine, che sarà poi successivamente sviluppata in un dipinto. Forse è inutile precisare che i disegni non hanno nulla dell’approssimativo, del casuale, del provvisorio. Sono opere perfettamente controllate e compiute, anche quando si presentano come studi. Insieme ai dipinti formano un ricco corpus unitario che i familiari dell’artista hanno custodito con cura negli anni. Ad essi va il nostro ringraziamento per non averlo disperso e per consentire a noi di ammirare queste opere.

CORRADO  CASTELLANI

 (Testo tratto dalla presentazione dell’opera dell’artista Ernesto Mattiuzzi, in occasione della Mostra Antologica retrospettiva organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di   Conegliano  svoltasi presso la casa-museo di G.B. Cima  in Conegliano nel Settembre 2000 )

Questa mostra si propone di mettere in evidenza nel corpus di opere che spaziano nei vari generi pittorici due tonalità emotive che avvolgono i soggetti della sua esperienza figurativa: da una parte il desiderio erotico, vitalistico, la passione sensuale, dall’altra l’inclinazione pessimistica e la meditazione sulla condizione umana, percepita come segnata dall’infelicità e dalla fatica dell’esistenza. Eros e malinconia, in fondo amore e morte, temi romantici per eccellenza, intensamente sentiti e rappresentati dall’artista. Sono motivi sviluppati in parallelo, che in alcune opere di particolare densità trovano una significativa confluenza, con la tensione erotica intrecciata al ripiegamento malinconico. Degne di nota le situazioni nelle quali è tematizzata la difficoltà di comunicazione tra l’uomo e la donna, che non riescono ad incontrarsi in un dialogo foriero di comprensione, ma restano chiusi nei rispettivi inconciliabili punti di vista.

La mostra comprende dipinti e disegni su un piano di parità. Questi ultimi, generalmente lavori preparatori per le versioni pittoriche, non presentano mai il carattere sommario e approssimativo dello schizzo, ma si risolvono in versioni di sapiente maestria, accuratamente definite in ogni dettaglio.

Grazie alla cortese disponibilità dei collezionisti è stato possibile esporre un buon numero di opere mai precedentemente presentate al pubblico, un’occasione preziosa per una lettura più completa e articolata della personalità e del talento di questo protagonista, appartato ma non minore, dell’arte veneta del Novecento.

Corrado Castellani

 (Testo tratto dalla presentazione dell’opera dell’artista Ernesto Mattiuzzi, in occasione della Mostra Antologica retrospettiva organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di  San Pietro di Feletto presso la Galleria Dell’Eremo nel Maggio 2023 )

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